I due volti di Marta, musa di Pirandello

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Di Redazione Metropolitan

Intensa e appassionata sul palco, pratica e calcolatrice nel gestire la relazione con Pirandello. Attrice di teatro versatile e spesso osteggiata dalla critica

“Chi ha detto che un’attrice debba fare esperienza per creare un personaggio sulla scena? L’arte è frutto di intuizione. E a me è sempre bastato intuire. L’esperienza non è mai altro che la prova di un’intuizione”. Lo scrive Marta Abba, attrice prediletta di Pirandello, di cui quest’anno ricorrono i trent’anni dalla morte, a Milano, città in cui era nata nel 1900, con  un’altalenante carriera in Italia e all’estero. Un’intuizione che coltiva fin da giovanissima, all’Accademia d’Arte dei filodrammatici, per poi debuttare sul palco a 22 anni con Il Gabbiano di Cechov nei panni di Nina, diretta da Virgilio Talli, al Teatro del Popolo.

DA SINISTRA: LUIGI PIRANDELLO, MARTA ABBA E MASSIMO BONTEMPELLI (PHOTO CREDITS GORGONIA BLOG )

Un’interpretazione intensa che attira l’attenzione di Pirandello, di cui diventa la musa ispiratrice e la sua passione non corrisposta. Porta in scena Nostra Dea, diretta da Massimo Bontempelli, che rimane l’opera più replicata del Teatro d’Arte, la compagnia del drammaturgo siciliano. Il 18 maggio veste i panni della figliastra nei Sei personaggi in cerca d’autore al Teatro Odescalchi di Roma. In tourneé a Londra e Parigi diventa Ersilia Grei in Vestire gli ignudi, la signora Frola di Così è (se vi pare), Agata Renni in Il piacere dell’onestà.

Ma Pirandello crea anche personaggi su misura per la sua bellezza fuori dai canoni classici, malinconica e un po’androgina. Dall’abile cerca mariti de L’amica delle mogli del 1927 alla conturbante Ignota di Come tu mi vuoi del 1930, Marta Abba, fin dall’inizio è complementare all’arte pirandelliana. Lui ne intuisce l’enigmaticità, il tratto che è anche il quid attorno al quale ruota tutta la sua concezione dell’uomo, intrappolato nella gabbia delle finzioni.

Lei, sulla scena, trova la sua dimensione esistenziale: “Sarà questo il mio modo di essere attrice. Vivere nel teatro tutto ciò che la vita mi vieta, tutte le passioni che la realtà non mi concede” come scrive nel suo articolo intitolato Un’attrice allo specchio e pubblicato sulla rivista Il dramma nel 1931. La passione, appunto, che rimane confinata ai ruoli che interpreta, mentre nella vita è sempre un’abile amministratrice di se stessa, riconoscente al suo maestro, affettuosa ma mai complice della sua ossessione amorosa, come documentano le lettere che i due si sono scritti nell’arco di un decennio, dal 1926 al 1936, e pubblicate postume, per non infrangere il loro patto di amicizia, rivelando al pubblico il Pirandello fragile e dipendente da lei che emerge dal carteggio.

Lui intravede fin dall’inizio nell’interpretazione di Marta la possibilità di un sodalizio professionale che di fatto si è dimostrato tra i più riusciti nella storia del teatro, ma nel loro legame, in cui arte e vita si intrecciano, è sempre la prima a soverchiare la seconda, rivendicando il tributo a entrambi. Lui, genio della letteratura del Novecento, rimane infelicemente legato alla moglie squilibrata dalla quale non può e non vuole separarsi mentre  Marta sarà sempre il suo desiderio non appagato.

Lei, dopo una breve e poco fortunata esperienza cinematografica, spicca il volo per l’avventura statunitense, e proprio mentre Pirandello muore, nel 1936, è sul palco di Broadway, protagonista della commedia Tovarich di Jaques Deval. Ottiene i riconoscimenti che le ha negato la provincia italiana, che forse non le ha perdonato il controverso rapporto con Pirandello, ma non riesce nemmeno qui a sfondare nel cinema.

MARTA ABBA (PHOTO CREDITS RITA CHARBONNIER)

Troppo lontana dall’immagine di diva hollywoodiana, troppo forte l’imprinting pirandelliano da cui attinge per dar vita ai suoi personaggi. Ha ormai fatto sua l’idea di poter assumere tanti volti diversi quanti ne esige il pubblico per osannarla, amarla, anche criticarla, di poter sperimentare, in quanto attrice e quindi maschera per eccellenza, tutte le contraddizioni dell’essere umano. Un percorso che non si sente di abbandonare per trasformarsi nell’icona frivola e patinata che l’America chiede.

Nel 1952, divorzia dal ricco americano Severance Millikin sposato 14 anni prima e torna in Italia, è di nuovo sul palco, senza un grosso riscontro di pubblico. Ha esaurito il suo slancio creativo, quell’intuizione che l’ha sempre guidata per entrare nei personaggi e capisce che il teatro non può più essere il “terribile e angoscioso lavoro” su di sé che comunque le ha regalato tanto. Inizia la parabola discendente, con gli ultimi anni dedicati a gestire l’opera del maestro, a selezionare con cura maniacale le attrici che devono interpretare le sue opere, di cui detiene i diritti d’autore, a custodire la sua memoria, sempre in modo attento, rispettoso ma calcolato.

Anna Cavallo