Impronte popolari: tarantismo (seconda parte)

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Di Redazione Metropolitan

Ritorniamo a parlare del fenomeno tarantismo, rivolgendo l’attenzione a un insieme di culti africani strutturalmente affini caratterizzati dalla possessione da parte di demoni e dal trattamento coreutico-musicale. L’area di diffusione di questi culti comprenderebbe i paesi islamici dell’Africa settentrionale (Egitto, Tunisia), la Penisola Arabica e l’Etiopia. Molto significativo sono le affinità che legano il tarantismo e il culto vodu per quanto concerne le funzioni che assolvono nei rispettivi ambienti sociali. E’ stato osservato infatti che le cerimonie vodu soddisfano il profondo bisogno di far defluire traumi, frustrazioni e repressioni cui la gente è condannata in un ambiente che ha alle spalle un non molto remoto passato di schiavitù. Mentre se andiamo a paragonare il tarantismo con i culti africani di tipo bori o zar e con i culti afroamericani conosciuti col nome di macumba o santeria, si va a notare come in anch’essi pesa l’interpretazione naturalistica che li riduce a malattia. Se poi andiamo a isolare il fenomeno dalla Puglia è possibile osservare paralleli folkloristici simili nella vita religiosa minore delle plebi rustiche europee. L’area folklorica in cui tali fenomeni appaiono appare circoscritta al Mediterraneo occidentale, alla Sardegna (al pari della taranta pugliese l’argia sarda è un animale mitico e come nel caso della taranta, è la logica simbolica e non quella naturalistica, che presiede alla formazione della sua immagine) e la Penisola Iberica. Sempre nell’intento di appassionarvi cercherò di darvi una idea storica che circonda tale fenomeno. Bisogna gettarci nel passato e più precisamente nella vita religiosa greca, di cui l’Apulia fu, come parte della Magna Graecia, una provincia culturale. L’autonomia simbolica del morso o della puntura assume in Grecia una forma caratteristica che si collega non tanto alla rappresentazione di un veleno iniettato nelle vene quanto piuttosto a quella di una puntura incalzante, che costringe a una fuga angosciata e delirante. L’oistros (appunto la personificazione della frenesia) è rappresentata da Eschilo come pungiglione del tafano che sospinge a una corsa senza meta col cuore colmo di phobos (pavore) e di lyssa (ira). Nell’episodio del Prometeo in cui Io è vittima di un amore precluso ci fa capire come quest’ultimo ha grande importanza fra le motivazioni esistenziali della crisi del tarantismo. Una crisi che coinvolge il mondo delle donne, soprattutto prima delle nozze, che si manifesta con la classica fuga verso solitudini arboree e acquatiche. Alla diffusione di questa crisi nel mondo femminile fa riscontro il menadismo che riprende con nessi mitico-rituali, gli aspetti strettamente orgiastici del culto dionisiaco. Infatti nel menadismo e nei culti orgiastici femminili ritroviamo la fuga in uno stato allucinato ma vi ritroviamo anche la risoluzione della crisi, con l’istituzione di un luogo di culto che andava a riprodurre lo scenario naturale. Cerimoniali che affondano le loro radici nelle arcaiche iniziazioni tribali e che nel mondo classico furono assorbiti nelle religioni di mistero. Se andiamo avanti con la storia e volgiamo il nostro sguardo all’epoca medievale, è possibile dare, senza presunzione ma osando, una “nascita” a quello che è il culto del tarantismo. Infatti nel IX secolo la Puglia era terra di confine dove ebbe luogo il grande urto fra mondo cristiano e mondo islamico. Puglia terra di passaggio per gli eserciti crociati. E’ qui che si sviluppano le epidemie coreutiche sul cui tronco si innestò il tarantismo pugliese. E’ di fronte a queste epidemie che il tarantismo pugliese si manifesta con caratteri propri, che elaborò il suo simbolo con relativa autonomia culturale andando ad accogliere anche quei elementi provenienti dalla civiltà religiosa della Magna Graecia, quali il simbolismo dell’oistros. Spero vivamente di tenervi incuriositi narrando di questo culto, al quale nel prossimo episodio oltre ad andare a concludere, analizzerò quegli aspetti magici e misteriosi che ancora tengono banco nel nostro presente.

 

Giacomo Tridenti