L’ammaliante concerto degli Alt-J al Palalottomatica: l’estetica del sound

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Di Rossella Papa

Per l’unica data italiana del tour gli Alt-J hanno scelto Roma, trascinando il Palalottomatica in un viaggio onirico tra il minimalism e il rock.

Nessun pienone e nessun coro da stadio, eppure l’intensità del pubblico era palpabile proprio come il pathos musicale della band inglese di alternative indie rock.

Più puntuali loro che il pubblico, alle 21.30 il primo gioco di luci li aveva già svelati con le note di Deadcrush: fermi e decisi come soldatini su un palco che ballava al posto loro.

Non si sono mossi quasi per niente, mentre intorno il cielo si capovolgeva in ritmi eterei e battenti. Probabilmente poco performance e nessun animale da palcoscenico: era un po’ come ascoltare le loro canzoni nella propria stanza da letto, ma questa volta con un centinaio di persone sotto lo stesso soffitto. Qualcuno potrebbe controbattere pensando che gli occhi vogliono la loro parte e il concerto è uno spettacolo; ma chiedetelo a chi, invece, perso tra la platea assorbiva la loro musica come un fiume nella testa.

Le luci non nascondevano la loro immobilità, la risplendevano: forse il loro talento si cela proprio in quella staticità che riesce a mobilitare chiunque. Se vi aspettavate salti intorno all’asta e teatro da musicisti allora, probabilmente, non avete mai conosciuto l’anima degli Alt-J. Se avete chiuso gli occhi e immaginato di nuotare su nuvole dorate, allora eravate lì proprio per questo.

Una scaletta che si srotola senza interruzioni, in un’ora e mezza tutta d’un fiato: il tempo di partire e tornare da pianeti di sogni lucidi e popcorn. Forse troppo poco, qualcuno dirà, ma dovreste conoscere la differenza tra il tempo quantitativo e quello qualitativo. Gli antichi greci identificavano il momento supremo nella parola Kairos, un caso che assomigli a Caos?

Quello degli Alt-J è un caos calmo, una bassa marea ma che argina gli scogli, la tensione di due zolle che un giorno farà tremare le vecchie chiese di pietra.

Mi ricordo la prima volta che ho ascoltato una canzone degli Alt-J: ero in macchina con un’amica, tragitto breve. Da casa mia alla destinazione saranno passati dieci minuti, ma in quei dieci minuti ho immaginato la Luna e un divano rosso dove sedermi per guardarla meglio.

Quello di ieri è stato un viaggio breve, ma intenso. E, forse, sulla Luna ascolterei davvero Taro, Nara o Something Good.

Ed è stato giusto che quel palazzetto non fosse pieno come ad un concerto dei Coldplay. E’ anche giusto che questo trio di inglesi timidi e silenziosi resti ancora una musica di nicchia.

Perché, alla fine, è anche giusto che l’arte sia di tutti. Ma non per tutti.

Rossella Papa