Nada: “E’ un momento difficile, tesoro” (recensione)

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Di Redazione Metropolitan

Ho sempre provato attraverso i miei dischi e i miei libri a cercare di raccontare quello che sento e avverto, sia dentro che fuori di me. È esattamente da questa disposizione d’animo che è nato il nuovo album”.

È un momento difficile, tesoro”: un’espressione che esprime un malessere ma mi fa sorridere, è sicuramente appropriata a questo disco, al mio sentire,
al mio chiedermi se con queste canzoni sono effettivamente riuscita a descrivere bene frammenti di vita e stati d’animo, tanto da riuscire a sintetizzare in un’unica idea le emozioni e i pensieri che in questo ultimo periodo mi hanno profondamente coinvolta.

Nada Photo Credit BigTime
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Queste parole dell’autrice, estratte dal comunicato stampa che accompagna l’album, ci aiutano a entrare ancora una volta nel mondo di Nada.
E a rispondere che sì, lei ci è riuscita nuovamente. Si tratta di “dieci canzoni nate negli abissi del mio nero profondo, per poi misteriosamente raggiungere i colori e la leggerezza del pensiero, finalmente libero di andare là dove portano sentimento e ragione che si uniscono per diventare tutt’uno”.

Nada è un’artista unica nel panorama cantautorale italiano: senza uguali o discepole (tutt’al più sorelle o spiriti affini, in attività lontano dalla Penisola: pensiamo a certe pagine di Marianne Faithfull, Patti Smith, Kim Gordon), 65 anni di cui 50 di carriera. Una ventina di album di studio, tutti a loro modo speciali. Un percorso sonoro, un’urgenza espressiva che dagli acerbi esordi di “Ma Che Freddo Fa” e il successo pop di “Amore Disperato” si è via via inspessito, incupito, come un viaggio necessario nei meandri di un’anima forte e fragile allo stesso tempo, sempre alla ricerca.

Dai primi anni Duemila soprattutto, l’esplorazione di Nada, la sua tortuosa semina intima/esistenziale, offre frutti dolci-amari. Anche nel caso di quest’ultimo lavoro, il panorama musicale è familiare: un disco senza assoli o inutili orpelli virtuosistici. Scarno, secco, asciutto ed essenziale. Chitarra elettrica tagliente, per lo più in funzione d’accompagnamento. Ritmica a privilegiare i tempi medi. Basso dal suono distorto. E poi svisate di tastiere e organo, pennellate evocative di tromba.

Un disco che vede il ritorno alla produzione di John Parish (già in cabina di regia con PJ Harvey, Eels, Giant Sand, Afterhours), di nuovo al fianco di Nada dopo lo splendido lavoro fatto nell’album “Tutto l’amore che mi manca” (2004). “Registrare ancora con John Parish è stato l’avverarsi di un desiderio che nutrivo dall’ultima volta che avevamo suonato insieme; con amicizia e qualche mail si è trasformato infine in una bellissima realtà”.

Nada Photo Credit BigTime

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Il racconto di Nada lungo i suoi brani (ognuno di 3-4 minuti di durata) si dipana gradualmente come la lettura di un diario intimo dotato di prologo ed epilogo. Sono già state estratte due ‘pagine’ a mo’ di singoli, vale a dire la title-track e “Dove sono i tuoi occhi”. Esempi perfetti delle atmosfere che popolano l’album tra squarci slabbrati di poesia “maudit” e furore dallo spirito quasi “punk/grunge”. Dal tormento alla ricerca di un precario equilibrio.

Ovunque, troviamo la triste ironia. Sperduta e apocalittica, livida di un senso di solitudine, di mancanza, di assenza. Ma a braccetto del senso di disperazione che aleggia, percepiamo allo stesso tempo anche un vivido anelito alla Luce. Non importa se siano i raggi salvifici del sole o il calore umano. L’amore di un amico, di una madre, di un compagno.

Nada è alla ricerca di una mappa del tesoro, di un ‘altrove’ per il quale occorre combattere. Da cercare sempre, da meritare. Un ‘altrove’ capace di far volare via dall’oscurità che la circonda, che la divora, che talvolta la nutre. Con l’aiuto della musica, questa espiazione/purificazione è possibile.

Qua e là poi, tra le pieghe del suo nuovo lavoro, troviamo anche interessanti divagazioni oniriche (“Stasera Non Piove”) o riferimenti alle figure genitoriali, fortemente simboliche.

Il riferimento è naturalmente all’incredibile “O Madre”? Occasione ideale per “rivedersi nella propria genitrice e con amore riuscire a perdonarle i tanti conflitti, liti, scenate e combattimenti di tutta un’esistenza. E nel momento del perdono, della confessione, in un atto di devozione e pietà chiedere il suo aiuto, inginocchiarsi davanti a lei con il desiderio di rientrare nel suo grembo, nel grembo materno, e cercare nel buio più profondo la vera essenza, per rinascere e dare di nuovo alla luce se stessi”. Forse il nostro pezzo preferito, specie la seconda metà col suo pathos inquietante, mozzafiato.

Non mi è mai capitato in tanti anni di finire un disco e di essere fino in fondo soddisfatta. Oggi lo sono e questa soddisfazione mi rende felice. Questo disco, che forse non è affatto divertente, rende felici”.
No, non è affatto divertente, aggiungiamo noi. Certe volte non è questo l’obiettivo. Ci sono stagioni di una vita artistica (ma non solo di quella) che hanno bisogno di scrollate, di squarci di verità.
Per ritrovare la strada e scorgere mappe ancora mal tradotte per la felicità.

Ariel Bertoldo